Come appare il mondo ad una persona daltonica?

Visione normale dei colori

La discromatopsia è un’incapacità di percepire i colori, totale o parziale. Spesso conosciuta come daltonismo, in nome del chimico inglese, John Dalton, che nel 1794, dopo essersi reso conto della propria cecità cromatica, la descrisse nell’articolo scientifico “Fatti straordinari legati alla visione dei colori“. È un difetto di natura prevalentemente genetica legato al cromosoma X. Tuttavia i deficit di sensibilità cromatica possono essere anche acquisiti, ad esempio dovuti ad un danno agli occhi o al cervello. In questo caso possono colpire un solo occhio oppure entrambi.
Inoltre patologie come la cataratta, la maculopatia o le otticopatie possono portare in alcuni casi ad una lieve alterazione della sensibilità dei colori.

Esistono diversi tipi di discromatopsia. I più diffusi sono dovuti ad alterazioni ereditarie dei coni, i fotorecettori sensibili ai colori, ma è anche possibile diventare discromatopsici in seguito a un danneggiamento della retina, del nervo ottico o di determinate aree della corteccia cerebrale.

Si definisce dicromatismo quando è completamente assente la funzione di una sola delle tre varietà di coni. Si distinguono:

  • protanopia, cecità per il colore rosso;
  • deuteranopia, cecità per il colore verde;
  • tritanopia, cecità per il colore blu.

Quando si ha la mancanza di tutti e tre i coni si parla di acromatopsia.

Si definisce tricromatismo anomalo quando c’è un deficit variabile dei recettori di uno dei tre colori fondamentali, che determina una ridotta capacità di riconoscere uno dei 3 colori fondamentali ovvero:

  • protanomalia, qualora sia deficitaria la sensibilità per il rosso;
  • deuteranomalia, qualora sia deficitaria la sensibilità per il verde;
  • tritanomalia, qualora sia deficitaria la sensibilità per il blu.

La diagnosi viene eseguita mediante un esame cromatico del riconoscimento dei colori. Spesso vengono utilizzate le tavole di Ishihara che consistono nel riconoscere i numeri che tendono a confondersi con lo sfondo colorato; per i test rivolti ai bambini i numeri sono sostituiti con un disegno o un percorso. Per approfondire maggiormente, si può effettuare il test di Farnsworth, che consiste nel mettere nella corretta successione tonale una serie di colori.

Tavola di Ishihara n.8

Inoltre sono state elaborate delle applicazioni per dispositivi elettronici come telefoni cellulari o tablet, che possono rivelare eventuali difetti nella percezione cromatica. Tuttavia tale verifica non ha un valore diagnostico preciso: è sempre necessario, per una corretta diagnosi, rivolgendosi ad un medico oculista.

Gli occhi di James Joyce

Il grande romanziere irlandese conosciuto soprattutto per la produzione del testo ritenuto da molti il più illeggibile della storia, l’Ulisse, fu protagonista di “un’Odissea clinica”, quindi titolo scelto forse non a caso. L’autore è stato protagonista di un travagliato peregrinare durante tutto l’arco della sua esistenza, non vagò per le strade di Dublino né tanto meno fra i mari della Grecia, ma da un medico all’altro, per farsi curare.

James Joyce dopo l’intervento all’occhio sinistro

Molti sono i quadri patologici documentati nelle numerose biografie, dalla degenza ospedaliera nell’Estate del 1907, causata da una febbre reumatica, ai disturbi oculari (irite, glaucoma e cataratta) che lo condussero quasi alla cecità, fino ai ricorrenti dolori addominali dovuti ad un’ulcera peptica. Oltre alle numerose opere biografiche, che raccontano la tumultuosa vita di Joyce, una fonte è rappresentata dalle innumerevoli lettere che mandò lo scrittore ai più svariati destinatari, nelle quali si ritrovano chiari riferimenti al suo stato di salute.
Racconta al fratello, in una lettera del 1905, dei primi problemi legati alla vista, la prima menzione dei gravi disturbi oculari, che tormentarono Joyce, in seguito ai quali subì ben undici interventi chirurgici.
Nel 1907 ebbe il primo attacco di irite all’occhio sinistro, mentre era in cura per febbre reumatica e sepsi dentale, ne seguiranno altri nel 1908, nel 1909 e nel 1917. Quest’ultimo fu complicato da sinechie e glaucoma e seguito dalla prima iridectomia. In una lettera all’amica e mecenate Miss Weaver confida che “sono depresso… le conseguenze questa volta sembrano piuttosto gravi, e spero che si possa evitare un’operazione”.

L’ anno successivo cominciarono ad essere coinvolti entrambi gli occhi, curati con gocce miotiche ed impacchi freddi. Nel 1922 in conseguenza di un nuovo fortissimo attacco, la sua editrice, Sylvia Beach, lo condusse dal proprio oftalmologo, Louis Borsch. Costui convinse Joyce che i precedenti interventi erano stati un errore, rimandando qualsiasi atto chirurgico. Ma gli interventi avvenuti negli anni successivi non produssero alcun miglioramento. Nel 1925 fu rimossa la cataratta dall’occhio sinistro, con persistenza di membrane secondarie. Seguirono quattro capsulotomie sinistre con perdita del vitreo ed emorragie. Anche nell’occhio destro, dopo i ripetuti attacchi di irite, si era sviluppata la cataratta.
Alla morte del dottor Borsch, Joyce finì in cura dal Professor Alfred Vogt, il più quotato chirurgo oftalmico europeo dell’epoca, ormai rimasto quasi cieco, reduce da otto interventi sull’occhio sinistro. Nel 1930 Vogt lo sottopose a discissione orizzontale di cataratta terziaria dell’occhio sinistro. Però Joyce, assillato da nuovi gravissimi problemi familiari, non si presentò alle visite di controllo negli anni successivi. Solo quando ebbe una diminuzione dell’acuità visiva si rivolse nuovamente a Vogt. L’occhio destro presentava ormai cataratta totale con glaucoma secondario e parziale atrofia di retina e nervo ottico.
La scrupolosità di Vogt nei sistematici richiami e controlli trimestrali successivi, unita alla decisione di non intervenire più sull’occhio sinistro portò presto Joyce a recriminare sulla propria superficialità e rimpiangere di non averlo incontrato prima.
Nonostante i momenti di sconforto, la sua volontà creativa aumentava, arricchendo la densità della scrittura. Continuò la sua attività di scrittore, concludendo la grande opera “Finnegans Wake”, conclusione della sua rivoluzione linguistica e letteraria nel romanzo del ventesimo secolo.
Joyce soffrì di ricorrenti dolori addominali, dovuti certamente ad ulcera peptica, ma attribuiti dai medici ai “nervi”. I sintomi furono trascurati, Joyce aveva accettato la natura psicosomatica dei dolori, come suggerivano medici e conoscenti.  Il 9 gennaio 1941, a Zurigo, al ritorno a casa dopo cena avvertì improvvisamente dolori addominali fortissimi. Seguì un rapido peggioramento, con chiari segni di peritonite, quindi si arrivò all’intervento chirurgico, in cui fu evidente un’ulcera duodenale perforata, prontamente suturata e ricoperta con un patch omentale.  Ma un’emorragia massiva con relativo shock si manifestò il pomeriggio seguente. Nonostante le trasfusioni Joyce entrò in coma e durante la notte del 13 Gennaio del 1941 morì all’età di 58 anni.

In conclusione c’è da dire che il fallimento dei presidi terapeutici adottati per curare le malattie dell’illustre scrittore sono dovute sia alla sua scarsa “compliance”, incostante nel farsi curare, visitato da ben trentacinque medici, dei quali però difficilmente seguiva i consigli; ma anche dal limite dei mezzi utilizzati che a quel tempo la medicina disponeva, soprattutto per i suoi problemi oculari.

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